The Court of Appeal of Turin upheld the lower court’s judgment deeming a clause of a collective agreement negotiated at the enterprise level to be discriminatory because it infringed on Articles 3 and 37 of the Constitution, Article 25, para 2bis, of Decree No. 198/2006 and Article 3 of Decree No. 151/2001. Under the relevant clause the “real presence at work” was as an eligibility criterion to receive an additional remuneration, it being understood that any family-related leave, including any compulsory maternity leave, parental leave, and/or leave for illness, could affect the employees’ level of performance in that respect. The Court maintained that even though the criterion was formally neutral, it resulted in an indirect pay discrimination since female workers usually take more family-related leave than male workers. Moreover, during the trial, the company failed to provide a permissible justification regarding the requirement of “real presence at work.” Therefore, the employer was ordered to (1) cease the discrimination by computing leave as actual time worked for the purposes of achieving the real presence requirement and becoming eligible for the additional remuneration, (2) to pay the additional remuneration incentive to the plaintiffs, and (3) to enhance a plan to remove the discrimination by avoiding the inclusion of the above criterion in any future collective bargaining at the enterprise level. The latter was promoted by the intervention of the Regional Equality Adviser as a case of collective discrimination.
La Corte d’Appello di Torino ha confermato la sentenza del Tribunale di primo grado che considerava discriminatoria una clausola di un contratto collettivo negoziato a livello di impresa in quanto contraria agli articoli 3 e 37 della Costituzione, all’articolo 25, paragrafo 2 bis, del decreto n. 198/2006 e all’articolo 3 del decreto n. 151/2001. Ai sensi della clausola rilevane, l’“effettiva presenza in servizio” era un criterio di ammissibilità per ricevere una retribuzione aggiuntiva, fermo restando che qualsiasi congedo per motivi familiari, compresi i congedi di maternità obbligatori e i congedi parentali e/o congedi per malattia, avrebbero potuto influire sul livello di prestazioni dei dipendenti a tale riguardo. La Corte ha sostenuto che, pur essendo la clausola formalmente neutrale, il criterio comportava una discriminazione retributiva indiretta, in quanto le lavoratrici prendono generalmente un numero di congedi familiari superiore a quello dei lavoratori di sesso maschile. Inoltre, durante il processo, l’azienda non aveva fornito una giustificazione ammissibile per quanto riguarda il requisito dell’“effettiva presenza in servizio”. Pertanto, al datore di lavoro è stato ordinato di (1) cessare la discriminazione calcolando il congedo come tempo effettivo di lavoro ai fini del raggiungimento del requisito di presenza effettiva in servizio e quindi di poter essere ammessi al percepimento della remunerazione aggiuntiva, (2) versare l’incentivo retributivo supplementare ai ricorrenti, e (3) implementare un piano per rimuovere le discriminazioni evitando l’inclusione della clausola di cui sopra in qualsiasi futura contrattazione collettiva a livello di impresa. Quest’ultimo obiettivo è stato promosso dall’intervento del Consigliere regionale di Parità al fine di far cassare un caso di discriminazione collettiva.